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Mario Merz

  • Immagine del redattore: Stefanini Arte
    Stefanini Arte
  • 25 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 1 giu



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Mario Merz (Milano, 1 gennaio 1925 – Milano, 9 novembre 2003) è stato una figura di spicco e un innovatore radicale del movimento dell'Arte Povera, la cui ricerca artistica ha saputo trascendere le categorie convenzionali, esplorando le dinamiche vitali della natura, i processi di crescita organica e le energie primarie insite negli oggetti quotidiani. Nato a Milano da una famiglia di origine svizzera, si trasferì ancora bambino a Torino, città che divenne il fulcro della sua vita e della sua attività creativa.

Gli anni della Seconda Guerra Mondiale segnarono una profonda frattura nel suo percorso: abbandonati gli studi universitari di Medicina, Merz partecipò attivamente alla lotta antifascista. L'arresto nel 1945, durante un'azione di volantinaggio, lo condusse all'esperienza del carcere, un luogo inatteso di genesi creativa dove iniziò a disegnare. Dopo la liberazione, incoraggiato dall'amico Luciano Pistoi, Merz intraprese con decisione la strada dell'arte, inaugurando nel 1954 la sua prima mostra personale presso la Galleria La Bussola di Torino, presentando opere di matrice espressionista che già lasciavano intravedere una sensibilità materica e un'urgenza espressiva.

La metà degli anni Sessanta rappresentò una fase di intensa evoluzione nella ricerca di Merz, che si spinse verso una sperimentazione audace culminata nella creazione delle "pitture volumetriche" (definizione coniata da Mila Pistoi). Queste costruzioni tridimensionali, realizzate con tele che inglobavano objets trouvés, materiali organici e industriali, sancirono il suo ingresso tra i protagonisti dell'Arte Povera, un movimento che sovvertiva le convenzioni artistiche tradizionali privilegiando la materialità grezza e il potenziale espressivo degli oggetti comuni. Cesti, pentole, impermeabili, fascine, cera d'api, creta, tondini di ferro, reti metalliche, vetro, neon e citazioni letterarie si manifestavano nelle sue opere come energie fino ad allora trascurate dalla pratica artistica, liberate da Merz in "una somma di proiezioni interiori sugli oggetti", talvolta tradotte "direttamente negli oggetti" stessi (come acutamente osservò Germano Celant), reinterpretandoli attraverso inedite configurazioni formali e semantiche.

In questo fertile periodo creativo emersero due forme archetipiche che costellarono la sua intera opera: l'igloo (a partire dal 1969) e il tavolo (dal 1973). L'igloo, da lui definito "forma organica ideale, nel contempo mondo e piccola casa", era concepito come uno spazio abitabile, un'assoluta semisfera appoggiata alla terra, non modellata ma intrinsecamente primordiale. Il tavolo, invece, rappresentava "la prima cosa per la determinazione dello spazio, pezzo di terra sollevata, come una roccia nel paesaggio". Igloo e tavoli non erano semplici strutture primarie, ma potenti dichiarazioni estetiche e socio-politiche, simboli del definitivo superamento della bidimensionalità del quadro e del solipsismo dell'artista, aprendo l'opera d'arte a una dimensione spaziale e concettuale più ampia.

A partire dagli anni Settanta, la celebre serie numerica di Fibonacci divenne una presenza costante e profondamente significativa nell'opera di Merz. Questa progressione matematica, in cui ogni numero è la somma dei due precedenti (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21…), individuata nel XIII secolo dal matematico pisano Leonardo Fibonacci, veniva interpretata dall'artista come un emblema delle dinamiche di crescita e proliferazione del mondo organico. Le cifre della sequenza, realizzate in neon, venivano integrate nelle sue installazioni, dalle prime apparizioni come il "Fibonacci Santa Giulia" appeso nella cucina della sua abitazione torinese (1968), alla monumentale "Suite interrata" lungo la linea tranviaria di Strasburgo (1994), dai tavoli proliferanti ideati per John Weber (1973) alla suggestiva "folla" di igloo presentata alla Kunsthaus di Zurigo (1985) e alla Salpêtrière di Parigi (1987), fino alla compenetrazione concettuale e formale tra tavoli e igloo (dal Capc di Bordeaux, 1987, allo Stedelijk di Amsterdam, 1994).

La ricorrenza di forme riconducibili alla spirale – come il triangolo, il cono e il vortice – visualizzate artisticamente attraverso una miriade di elementi organici come chiocciole, rami, foglie, pigne e corna, era intrinsecamente legata alla sequenza di Fibonacci, considerata la trascrizione numerica di una figura che, partendo da un punto zero, si espande all'infinito secondo un andamento spiraliforme, simbolo della crescita inarrestabile e delle dinamiche cosmiche.

Le grandi mostre degli anni Ottanta (Palazzo delle Esposizioni di San Marino, 1983; Guggenheim di New York, 1989; Castello di Rivoli e Museo Pecci a Prato, 1990) furono caratterizzate da una riemersione della pratica pittorica, che assunse un rilievo sempre maggiore, divenendo "lunga e veloce", habitat naturale per animali selvaggi e "preistorici" come rinoceronti, coccodrilli, tigri, bisonti, gufi e chiocciole, anch'essi portatori di una primordiale ingenuità. I ritratti di questi animali, definiti da Merz come "simbolici religiosi ma anche organici", venivano affiancati e assemblati alle forme iconiche della sua opera (l'igloo e il tavolo, e la loro trasposizione pittorica su tela) e agli oggetti carichi di significato (il neon, la bottiglia, l'impermeabile, il giornale, l'albero dello "sciamano" Merz), secondo una cadenza proliferante e spiraliforme ritmata sulla sequenza di Fibonacci. Questi elementi erano inoltre sottoposti a un processo di metamorfosi radicale, ottenuto tecnicamente attraverso l'abolizione del telaio e dell'imprimitura, lasciando che il colore imbevesse direttamente la tela, "cosicché prenda l'imprimitura della pittura, piuttosto di essere un suo supporto", facendo quasi "crescere zampe" alla tela dipinta, in una sorprendente identificazione tra il supporto e il soggetto rappresentato.

Questo periodo intenso, durante il quale l'artista pubblicò anche una ponderosa e programmatica silloge di scritti dal titolo emblematico "Voglio fare subito un libro" (1985), fu seguito da una fase caratterizzata da un ritorno all'essenzialità della materia e del segno (come evidenziato dalla sua personale alla Fundaçâo de Serralves di Porto nel 1999). La pratica del disegno, da sempre centrale nella sua opera, divenne protagonista di una serie di installazioni di grandi dimensioni, esposte a Nîmes, al Carré d’Art – Musée d’Art Contemporain (2000), e con la sua prima personale in America Latina alla Fundación Proa di Buenos Aires (2002). La sua importanza nel contesto dell'Arte Povera fu ulteriormente riconosciuta con la partecipazione alla mostra "Zero to Infinity: Arte Povera 1962-1972" (2001), la prima antologica sul movimento nel Regno Unito, organizzata dalla Tate Modern di Londra e dal Walker Art Center di Minneapolis. Tra le numerose onorificenze ricevute, spiccano la Laurea Honoris Causa dal Dams di Bologna (2001) e il prestigioso Praemium Imperiale dalla Japan Art Association (2003), a testimonianza del suo impatto globale.

Le mostre personali allestite dopo la sua scomparsa hanno continuato a celebrare la sua eredità artistica, tra cui la grande retrospettiva torinese ospitata nel 2005 nelle tre sedi della Galleria d'Arte Moderna, del Castello di Rivoli e della Fondazione Merz; la monografica sui "Disegni" al Kunstmuseum di Winterthur e poi alla Fondazione (2007); "What Is to Be Done?" (Henry Moore Institute, Leeds; Bildmuseet, Umeå, nel 2011-12); "Mario Merz Arnulf Rainer. Tiefe weite (Fragmente)" all’Arnulf Rainer Museum di Baden (2013); la mostra alla Pace Gallery di Londra (2014); "Città Irreale" alle Gallerie dell’Accademia di Venezia; "Numbers are prehistoric" al Museum of Cycladic Art di Atene (2015); la straordinaria esposizione di oltre trenta igloo allestita dal Pirelli Hangar Bicocca di Milano (2018); l'ampia antologica "El tiempo es mudo" al Reina Sofía di Madrid (2019); e un allestimento a lungo termine alla Dia Art Foundation di New York (2020). Nel 2021, la Fondazione Merz ha ospitato una significativa doppia personale intitolata "La punta di matita può eseguire un sorpasso di coscienza" con opere, per lo più inedite, di Mario Merz e Arnulf Rainer, in un allestimento curato da Mariano Boggia.

L'opera di Mario Merz rimane un'esplorazione affascinante delle energie vitali, un dialogo continuo tra natura e cultura, tra la sequenza matematica e la spirale organica, un'eredità artistica che continua a interrogarci sulla nostra relazione con il mondo e con le forze invisibili che lo animano.

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